Resoconto dal Summer Camp dei Giovani Verdi europei

di Lorenzo Caffè

Care compagne e cari compagni, quella di cui vi sto per parlare è stata, senza esagerare, una delle esperienze più straordinarie e allo stesso tempo formative che abbia mai fatto.
Come premessa, non posso che sottolineare il mio ringraziamento a voi tutti, compagne e compagni de I Pettirossi, per avermi dato questa grande opportunità di formazione, oltre che di vita.

Dal 22 al 28 luglio ho partecipato, in rappresentanza de I Pettirossi, al Summer Camp “Our Social Rights – Our Future” organizzato dalla Federation of Young European Greens, con il supporto del Council of Europe, della Green European Foundation e dell’European Youth Foundation.
Il Summer Camp si è svolto in Serbia, precisamente nei pressi del lago Borsko, un posto stupendo, avvolto dalla natura circostante e vicino al distretto di Bor, dove, tra l’altro, è situata una delle più grandi miniere di rame d’Europa.

Senza troppi giri di parole: è stata una esperienza straordinariamente formativa.
Una grande occasione per poter mettere a confronto esperienze di vita, idee, visioni con ragazze e ragazzi provenienti da ogni parte del vecchio continente, dal Portogallo all’Azerbaigian, dalla Scozia alla Turchia.
Credo che la politica sia essa stessa relazione. Chi fa politica non può sottrarsi dalla necessità di costruire dei fili conduttori che possano, nel rispetto delle differenze e delle peculiarità di ogni territorio, connettere le istanze sociali e ambientali, ovverosia prendere coscienza delle condizioni politiche ed economiche, affinché il proprio attivismo locale possa esser connesso, in un’ottica di fratellanza, di solidarietà e di lotta comune, potremmo dire di internazionalismo, con l’impegno oltre confine.
Sarebbe ovviamente molto interessante aver modo di approfondire il ruolo odierno degli Stati nazionali, di certo soggetti a una limitazione della propria sovranità rispetto al recente passato, in relazione al fenomeno della globalizzazione, con il progressivo sviluppo inoltre dell’innovazione tecnologica, nonché riflettere sull’importanza che assume il sogno europeo nell’attuale, ovvero nel futuro, scenario globale.
Agire locale, pensare globale”, proprio così, come ebbi modo di leggere in un articolo pubblicato  ibidem qualche mese fa.

Dopo aver avuto modo negli anni scorsi di partecipare a diverse assemblee, riunioni ed eventi di ogni tipo nel variegato mondo del centrosinistra e della sinistra italiana, questo Summer Camp finalmente mi ha dato la possibilità di ritornare a pronunciare, in modo limpido e cristallino, la parola politica, ritornando al suo significato originario, ovverosia l’arte che attiene alla città-stato. L’arte di governare o quantomeno di provare a farlo. Sì, lì si fa politica seriamente.

A tal proposito non ho potuto esimermi dal confronto spontaneo con quanto accade nel nostro Paese; aggiungo: un triste raffronto che dovrebbe favorire una riflessione collettiva su ciò che siamo e su cosa vorremmo e potremmo diventare.

In Serbia, non abbiamo perso ore e ore in autoreferenziali e sterili discussioni, non abbiamo atteso seduti su una sedia, nell’ennesima plenaria, l’ennesimo dirigente di turno, o generale senza esercito, eletto grazie anche all’impegno di centinaia di giovani, nell’ennesimo cartello elettorale fatto a pochi mesi dalle elezioni, pronto, come di consueto, a svolgere l’ennesima analisi della sconfitta o a spiegarci come ricostruire ‘dal basso’, partendo da quel cartello che alla prossima scadenza elettorale cambierà sicuramente nome e sarà ricompreso nell’ormai indecifrabile lista storica dell’ennesimo tentativo riuscito di frantumazione dell’atomo.
No, tutt’altro. Abbiamo fatto formazione politica, cioè abbiamo dedicato il nostro tempo a studiare, analizzare, approfondire tematiche cruciali per il futuro della nostra Europa, con sensibilità a volte diverse, sempre con uno spiccato senso critico, provando però a mettere sul tavolo delle possibili alternative concrete con la consapevolezza della complessità delle questioni cruciali dei nostri tempi, quindi dello studio necessario a tal fine.

Insomma, ho avuto modo di respirare buona politica, ho preso una boccata d’ossigeno, dopo lo stato raccapricciante in cui versa il dibattito pubblico nel nostro Paese,  nel quale, senza voler banalizzare, vedo solo macerie. Sperando che queste ultime non diventino la barbarie, ancorché il livello di fondo, da una parte per mezzo della decretazione d’urgenza, dall’altro attraverso alcune dichiarazioni pubbliche, sia stato già  da tempo sfiorato.

E proprio in quei giorni, mentre un Ministro della Repubblica utilizzava dei toni deplorevoli dell’istituzione che rappresenta dinnanzi al caso della bendatura del giovane statunitense, recente fatto di cronaca che è stato motivo di divisione in parte dell’opinione pubblica, personalmente stavo male pensando alla situazione politico-istituzionale in cui versa il mio Paese. Un malessere esistenziale, oltre che politico, un imbarbarimento della nostra cultura giuridica.

Tornando al Summer Camp, il team working sui social rights è stato possibile in modo particolare grazie alle due giornate di hackathon. Qualcosa di sorprendente, non avevo mai sperimentato tale forma di evento, più che una “maratona”, definirei l’hackathon un vero e proprio modo per incubare e portare a termine dei progetti in un modo del tutto orizzontale. Cosicché, ognuno ha favorito il dibattito avendo la possibilità di presentare la propria idea in coerenza con il tema centrale dell’intero Summer Camp, i diritti sociali, e sulla base di essa si costituiva un gruppo di lavoro per presentare, nell’ambito delle 48h successive, l’intero progetto.

Ho scelto di partecipare al gruppo di lavoro sulla tassazione. Ci siamo concentrati sui diversi regimi fiscali europei, oltre che sugli strumenti da utilizzare per arginare il fenomeno dell’elusione e quello dell’evasione fiscale, con un’attenzione particolare ai paradisi fiscali.

Sono rimasto davvero positivamente impressionato dalla voglia di fare, dall’energia impiegata sul campo e soprattutto dal pragmatismo che ha caratterizzato l’intero progetto.

In un gruppo composto da sette persone, con una buona rappresentanza delle diverse aree europee, abbiamo immediatamente iniziato a lavorare coordinandoci rispetto all’attività da svolgere. Teoria e prassi: dalle ricerche sui Paesi nell’Unione che possono essere definiti veri e propri paradisi fiscali, al confronto, per esempio, delle cifre che i singoli Paesi spendono nei servizi di welfare, insomma provando a mostrare l’impatto pratico del costo sociale dell’evasione fiscale.

Dunque, studio, ricerca, approfondimenti e confronti, ma oltre alla pura raccolta dei dati, ci siamo interrogati su quali strumenti e canali utilizzare per rendere appetibile tali contenuti e in che modo  rendere partecipi le persone e dar così origine a una mobilitazione che riguardi sia i comportamenti collettivi, sia gli Stati che debbono governare i fenomeni, invece che esserne subalterni o, ancor peggio, favorirli con politiche laissez-faire.

Il tutto con una comunicazione al passo con i tempi: sito web, memes, social e ogni mezzo utile, virtuale o reale, per veicolare il messaggio.

Trascorse le 48h ci siamo ritrovati dinnanzi a molteplici progetti portati a termine da ogni gruppo: per esempio un sito web internazionale sui trasporti ferroviari, una piattaforma come wikipedia per gli attivisti, oppure un progetto per la sensibilizzazione sui temi di genere. Qualcosa davvero di straordinario!

Invece, nei giorni precedenti e successivi all’hackathon abbiamo concentrato la nostra attenzione sui problemi relativi alle politiche abitative, quelli correlati alla gig economy, sul fenomeno europeo dei tirocini non retribuiti, inoltre abbiamo avuto modo di ascoltare esperienze dirette sulla situazione socioeconomica serba, come per esempio il caso di Belgrado dove gli stipendi sono molto bassi, ma in relazione ad essi il costo della vita è molto alto.

Non mi aspettavo, per esempio, l’appuntamento quotidiano con il reflection group che avveniva ogni sera, dove oltre a confrontarsi con gli altri partecipanti, si dava un feedback della giornata trascorsa al membro del prep team responsabile del singolo gruppo di riflessione.

Ciò testimonia l’attenzione e l’impegno dei Giovani Verdi, all’insegna di alcuni valori cardini che hanno accompagnato l’intero Summer Camp: inclusione, rispetto reciproco, fratellanza, princìpi che sono diventati regole fin dalla prima mattinata.

Dopo questa esperienza non posso che riflettere su quanto anche nella nostra penisola si potrebbe fare, unendo alla questione climatica la questione sociale per ridare rappresentanza a milioni di persone che hanno perso fiducia nella politica oppure, nell’assenza di qualsivoglia alternativa nel nostro campo, votano chi, sul terreno opposto, riesce meglio, quantomeno sul piano della propaganda politica, a rappresentare le loro istanze.

Ho appreso tanto da questo Summer Camp, questa esperienza è l’ennesima risposta a chi pensa che i giovani non siano interessati alla res publica. No, i giovani hanno tanta voglia di attivarsi per rendersi protagonisti di un cambiamento che riesca, partendo dalla questione ambientale, a dare un futuro alla nostra terra. Il problema sta nella credibilità e nel modus operandi. Sono certo che se la stessa attenzione che diamo ogni giorno, nella nostra micro bolla virtuale, al dibattito del tutto autoreferenziale a proposito di leadership, campi, coalizioni e cartelli elettorali, lo iniziassimo a dare a tutti coloro i quali compiono delle battaglie nella loro vita, dai riders ai ricercatori precari, dai lavoratori sfruttati e mal pagati a chi è costretto a fuggire per garantire un’esistenza dignitosa a sé e alla sua famiglia e a tutti i coloro i quali, in una condizione di ricatto permanente, costretti dal bisogno, non possono mobilitarsi, credo riusciremmo a fare un po’ di buona politica, con credibilità e passione, provando a dettare l’agenda e smettendola di rincorrere l’agenda altrui, insomma costruendo una nuova egemonia e garantendo reale rappresentanza.

Per esempio bisognerebbe immediatamente attivarsi per l’emergenza climatica, senza che siano i più poveri a pagare il cambio necessario del paradigma economico. Bisognerebbe chiedersi come si riuscirà a garantire la sostenibilità del welfare state, quando già in alcune zone dell’Italia rivolgersi alla sanità privata è diventata una pratica comune. Bisognerebbe chiedersi in che modo redistribuire la ricchezza grazie all’impiego dell’automazione e dell’innovazione tecnologica, e come spiegare al manovale o al precario che lavora 12 ore al giorno che proponiamo di diminuire l’orario di lavoro a parità di salario, se essi non hanno mai visto sostanzialmente l’applicazione dell’art. 36, co. 1 della Carta costituzionale: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Lo scrivo con la consapevolezza che, oltre allo studio e alla formazione delle classi dirigenti, il ché è dirimente, occorrano anche e soprattutto mezzi economici per una organizzazione capillare e adeguata che possa battersi, in primo luogo, per la giustizia sociale e ambientale.

Servirebbe un terreno, io lo chiamerei un partito, su cui avere la possibilità di muoversi e di crescere.

A mio avviso, nessuno è autosufficiente e di tutto abbiamo bisogno, in questi tempi, tranne che di testimonianza fino a se stessa. Potrei dilungarmi continuando con i dubbi e le mie incertezze, e con le questioni aperte, tante, a volte troppe; tuttavia mi auguro che questo resoconto possa essere utile alla riflessione, e soprattutto colgo nuovamente l’occasione per ringraziare l’intera comunità de I Pettirossi, grazie alla quale continuo ad avere la possibilità di crescere in questi tempi duri, nei quali è necessario non smettere mai di fare ‘Politica’.

 

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